Una lettura di ALTISSIMA POVERTA' di Giorgio Agamben
I
I
Il
francescanesimo fu il più radicale movimento all'interno
di una stagione di movimenti che scossero la Chiesa e la cambiarono,
in un momento della storia europea in cui dire Chiesa significava
dire anche influenza sul potere civile, cioè su tutta la vita dei
soggetti e delle società.
Se
molto si è scritto sul contrasto tra Francesco e la Chiesa romana,
meno si è riflettuto sui contenuti specifici della proposta
francescana, una proposta deflagrante che si poneva deliberatamente
fuori sia dalla liturgia e dal dogma, che dal diritto canonico e
civile.
Ma
quali sono i presupposti per cui un gesto del genere, che poteva
apparire provocatorio e puerile (e così fu anche considerato),
riuscì invece ad influire profondamente sulle discussioni più
importanti dell'epoca e a ricavarsi una propria autonomia rispetto ai
poteri che lo circondavano? E quale mancanza fondamentale,
nell'elaborazione teorica del movimento, concorse al suo finale,
sostanziale riassorbimento e ridimensionamento?
Questo
si chiede Agamben nel suo ALTISSIMA POVERTA' (Neri Pozza, 2012),
ricognizione trasparente di una stagione memorabile della società
europea, fatta con un occhio all'oggi, alla crisi di legittimità
delle forme politiche e giuridiche tradizionali e al caotico
rifiorire di spinte spirituali e di rivendicazioni sociali di base.
Si tratta, scrive Agamben, di come fare a pensare
una forma-di-vita, cioè una vita umana del tutto
sottratta alla presa del diritto e un uso dei corpi e del mondo che
non si sostanzi mai in un'appropriazione. Cioè ancora: pensare la
vita come ciò di cui non si dà mai proprietà ma soltanto uso
comune. E continua: un tale compito esigerà
l'elaborazione di una teoria dell'uso, di cui mancano nella filosofia
occidentale anche i principi più elementari...
Il
monachesimo europeo fu un grande esperimento che cambiò la Chiesa e
la società. Nel millennio che va dalla nascita del cenobio
all'apparizione di Francesco, una serie di regulae propongono
a queste migliaia di uomini in commune viventes un inedito
e radicale percorso esistenziale. Il lavoro manuale e l'orazione non
sono separati ma ogni istante della giornata è momento di
santificazione e di attenzione. La vita si trasforma in liturgia.
Nota Agamben: se noi siamo oggi perfettamente abituati ad
articolare la nostra esistenza secondo tempi e orari e a considerare
anche la nostra vita interiore come un decorso temporale lineare
omogeneo e non come un alternarsi di unità discrete ed eterogenee da
misurare secondo criteri etici e riti di passaggio, non dobbiamo
dimenticare che è proprio nell' horologium vitae cenobitico
che tempo e vita sono stati per la prima volta intimamente
sovrapposti fino quasi a coincidere.
D'altra
parte però, all'interno di questo grande campo di forze, ha luogo
anche un percorso opposto: la liturgia si trasforma in vita,
l'habitus s'incarna, la costrizione protratta comincia a
distillare qualcosa che non è più né regola né vita ma vita
et regula o, col termine tecnico francescano, forma
vitae. Scrive Agamben: da una parte, tutto si fa
regola e ufficio al punto che la vita sembra scomparire; dall'altra,
tutto si fa vita, i 'precetti legali' si trasformano in 'precetti
vitali', in modo che la legge e la stessa liturgia sembrano abolirsi.
A una legge che s'indetermina in vita, fa riscontro con un gesto
simmetricamente inverso, una vita che si trasforma integralmente in
legge. (...) E' in questo campo di tensioni storiche che, accanto
alla liturgia e quasi in concorrenza con essa, qualcosa come un nuovo
piano di consistenza dell'esperienza umana comincia lentamente a
farsi strada. E' come se la forma-di-vita in cui la
liturgia si è trasformata cercasse progressivamente di emanciparsi
da questa, e pur ricadendovi incessantemente e altrettanto
ostinatamente liberandosene, lasciasse intravedere un'altra e incerta
dimensione dell'agire e dell'essere. La forma-di-vita è, in questo
senso, ciò che deve incessantemente essere strappato dalla
separazione in cui lo mantiene la liturgia.
Agamben
sottolinea come il termine liturgia abbia un
significato originario molto diverso da quello che noi oggi gli
attribuiamo. Composto di laos, popolo e ergon,opera,
significava prestazione pubblica, servizio per il popolo.
Il fatto che Paolo, nella Lettera agli Ebrei, definisca Cristo
'leitourgos' delle cose sacre e che la Bibbia dei
Settanta traduca sempre l'ebraico sheret(genericamente: servire) proprio con leitourgeo,sembrano
indicare una chiara intenzione all'uso di un termine che rimanda
esplicitamente all'ambito politico.
Questa
precisazione non è inutile perché, come si vedrà, la forma
vitae francescana non solo tende a emanciparsi
dall'abbraccio di una regola troppo pervasiva e quietante (la vita
che diventa mera regola) ma anche da quello, non meno pernicioso,
dell'influenza del diritto, canonico e civile, proclamando per sé
l'abdicatio omnis iuris, il diritto a non avere diritti.
E'
questa la proposta radicale del francescanesimo: spostare in una
sfera terza l'azione del soggetto, sottrarla alle
influenze mondane e riportarla alla propria libertà originaria,
un'azione non più dettata o protetta da un potere, ecclesiastico o
civile che sia, né da una giustificazione identitaria ma libera,
gratuita, ispirata. Da chi? Da che cosa? Come vedremo, nel caso di
Francesco, da una nuda, lieta e povera sequela Christi.
Quello
che il francescanesimo afferma e rivendica, scrive Agamben, non
riguarda questioni teologiche o dogmatiche, articoli di fede o
problemi di interpretazione delle scritture, ma la vita e il modo di
vivere, un novo vitae genus, che essi chiamano vita
apostolica o evangelica...La rivendicazione della
povertà, che in sé non è nuova, non rappresenta, com'era nella
tradizione monastica, una pratica ascetica o mortificatoria per
ottenere la salvezza, ma è ora parte inseparabile e costitutiva
della vita 'apostolica', che essi dichiarano di praticare in perfetta
letizia...Forse per la prima volta, in questione, nei
movimenti non era la regola, ma la vita, non il poter professare
questo o quell'articolo di fede, ma il poter vivere in un certo modo,
praticare lietamente e apertamente una certa forma di vita.
Scrive
Francesco nel suo Testamento: "Dopo che il Signore mi dette dei
fratelli, nessuno mi mostrava che cosa dovevo fare ma lo stesso
Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo
Vangelo e io lo feci scrivere con poche parole e con
semplicità e il signor papa me lo confermò" (et
ego paucis verbis et simpliciter feci scribi et
dominus papa confirmavit mihi).
Chiosa
Agamben: in questa 'scrittura' (la cosiddetta Regola breve
del 1210) la regula et vita dei fratelli è
compendiata nelle 'poche parole': vivere in oboedientia, in
castitate et sine proprio, seguite da quattro citazioni
evangeliche. Le due regole successive non fanno che aggiungere a
questo nucleo essenziale, generico e tuttavia considerato come
esaustivo, prescrizioni monastiche tradizionali...Il nucleo originale
della regola consisteva, quindi, nell'attribuire uno status normativo
alla narrazione neotestamentaria come tale...Anche questo non era in
sé un fatto nuovo, nuovo era però trarre dall'equazione integrale e
senza residui di regola e vita di Cristo una trasformazione radicale
nel modo di concepire tanto la vita che la regola.
Se
tutto infine si risolve in una nuda sequela di Cristo, la formula
francescana vita et regula allude alla difficoltà,
alla tensione ma anche alla libertà e al respiro presenti in questo
sforzo appassionato ed entusiasta. Se nel monachesimo prefrancescano
la formula canonica era vita vel regula, vita ossia
regola, formula chiusa che tende a identificare i due termini,
il vita et regula francescano parla di qualcosa,
scrive Agamben, che non si può semplicemente chiamare 'vita'
ma che nemmeno si lascia classificare soltanto come 'regola', i due
vocaboli sono messi in reciproca tensione, per nominare qualcosa che
non si lascia nominare altrimenti...In questione, in entrambe, è
quella novitas che Francesco chiama vivere
secundum formam (sancti Evangelii)...Sostituendo al vel un et,
Francesco congiunge e, insieme, disgiunge i due termini, quasi che la
forma di vita che egli ha in mente potesse situarsi solo nel luogo
dell' et, nella tensione reciproca tra regola e
vita.
Questo
spazio nuovo che si apre all'interno della coscienza, spazio lasciato
vuoto, aperto solo all'esempio del Vangelo e all'entrata dello
Spirito, è un luogo dove non può entrare il giudizio sul
comportamento altrui ma solo il tentativo continuo di vivere in
questo modo e il sostegno reciproco a questo tentativo. In un passo
che richiama sia le parole di Cristo che un'immagine di maestro
orientale (tanta è stata la denigrazione retorica a cui questa
tradizione è stata sottoposta in Occidente che ci pare che solo in
Oriente possiamo trovare attitudini simili), Francesco, quando un
compagno gli chiede perché non intervenga a correggere la decadenza
dell'ordine, i cui membri hanno abbandonato la semplicità e la
povertà, lo rimprovera con fermezza di volerlo implicare in
questioni che non riguardano il suo compito: 'se non posso vincere e
correggere i vizi con la predicazione e l'esempio, non voglio
diventare carnefice per percuotere e frustare, come il potere di
questo mondo'. Nella tensione che il francescanesimo instaura fra
regola e vita, nota Agamben, non c'è posto per
qualcosa come una applicazione della legge alla vita, secondo il
paradigma dei poteri mondani (fra i quali nel vocabolario dell'epoca
poteva essere inclusa più o meno direttamente anche la Chiesa).
Francesco
comprende che, per essere strumenti puri di agape, occorre
stare nei pressi di una freschezza d'esordio, per questo usa poche
parole e del tutto semplici. Ma come può questa
proposta di vita ambire ad essere qualcosa di più che un tentativo
individuale o di pochi, come può non venire schiacciata dalla forza
storicizzata e indiscutibile del dogma e del diritto? E' davvero
possibile che una formula così essenziale, così legata alla sequela
e alla vita vissuta, assuma lo stesso valore di una regola codificata
e venga riconosciuta e non osteggiata da una società umana fondata
proprio sulla distinzione e sulla gerarchia?
Secondo
Agamben, Francesco fu molto lucido a riguardo, distinguendo
esplicitamente due forme di vita, senza mai opporle. Scrive
Agamben: da una parte Francesco dichiara che il Signore gli
ha dato una 'così grande fede' nei 'sacerdoti che vivono secondo la
forma della Chiesa Romana' che anche se gli facessero persecuzione,
egli vorrebbe temerli, amarli e onorarli come suoi signori;
dall'altra ha cura di precisare che 'dopo che il Signore mi dette dei
fratelli, nessuno mi mostrava che cosa dovevo fare ma lo stesso
Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo
Vangelo'... La vita secondo la forma del santo Vangelo si
situa su un piano così diverso rispetto alla vita secondo la forma
della santa Chiesa romana, che non può entrare in conflitto con
essa.
Non
si tratta di una strategia di sopravvivenza ma di una conseguenza
logica dell'intuizione spirituale del fondatore, intuizione che si fa
proposta pratica mai antiliturgica, come nel caso di
movimenti coevi presto in lotta con il papato, ma lietamente e
cocciutamente extraliturgica, lasciando ciò che è
proprio sia al Santo Evangelo, cui compete la forma di vita, che alla
Chiesa romana, cui compete l'ufficio.
Se
la regula vitae del monachesimo, con la
sua intensificazione senza precedenti della preghiera e
dell'officium, scrive Agamben, finì per influenzare
profondamente l'elaborazione della liturgia ecclesiastica, creò allo
stesso tempo una situazione critica nella quale la figura del monaco
dalla vita integralmente liturgizzata finì per
sovrapporsi all'immagine tradizionale del sacerdote responsabile dei
sacramenti. Da molte parti si cominciò a contestare il sacerdozio
come diritto dato dall'ordinazione opponendovi il merito di una vita
santa. Mettendo fine a questa controversia, Innocenzo III, nel suo De
sacrii altaris mysterio, rivendicherà la distanza
sostanziale tra sacerdote e sacramento, chiarendo che 'il
sacerdote non aggiunge nulla né di buono né di cattivo al
sacramento del corpo di Cristo...Anche quando chi opera il sacramento
fosse impuro, sempre il sacramento operato rimane puro". La
separazione tra vita e ufficio, chiosa Agamben, non
poteva essere espressa in termini più chiari.
Il
francescanesimo può accettare tranquillamente questa separazione
proprio perché la vita dei frati minori non è definita
dall'ufficium ma unicamente dalla povertà. Con
questa novitas si pone in un territorio critico che
allo stesso tempo lo distingue dai contesti in cui opera e, per così
dire, lo rende perfettamente solubile all'interno di essi, creando
una sorta di sempre rinnovata imprendibilità. Ma se il confronto con
la liturgia diede un esito favorevole alle rivendicazioni
dell'altissima paupertas francescana, quello col diritto
fu più difficile e contrastato.
In
questione, per Francesco e i suoi, è l'abdicatio omnis iuris,
la possibilità di un'esistenza umana al di fuori del diritto , cioè,
in concreto, la liceità per i frati di servirsi dei beni
senza avere su di essi alcun diritto, scrive Agamben. Si
tratta evidentemente non solo di una questione giuridica ma prima di
tutto filosofica e spirituale, che però i teorici francescani
accettano di discutere in ambito giuridico. A introdurre il concetto
di uso per caratterizzare la vita francescana sono
Bonaventura da Bagnoregio e Ugo di Digne. Scrive Ugo: "La legge
naturale prescrive agli uomini di avere l'uso delle cose necessarie
alla loro conservazione ma non li obbliga in alcun modo alla
proprietà...Non è infatti la proprietà degli alimenti e dei
vestiti a conservare la natura, ma l'uso; pertanto è possibile
sempre e dovunque rinunciare alla proprietà, all'uso mai e in nessun
luogo". E Bonaventura, distinguendo quattro possibili relazioni
alle cose temporali: proprietà, possesso, usufrutto, semplice uso,
afferma che di queste "solo l'uso è assolutamente necessario
alla vita degli uomini e come tale irrinunciabile". Bonaventura
cita a fondamento delle proprie tesi la bolla Qui Elongati di
Gregorio IX: stabilendo che i frati minori 'non hanno la proprietà
né in comune né in privato, ma che l'ordine abbia l'uso degli
utensili, dei libri e delle cose che è lecito avere' il papa ha
separato la proprietà dall'uso, mantenendo per sé e per la Chiesa
la proprietà e concedendo l'uso per la necessità dei
frati. Argomentazione essenzialmente giuridica, nota
Agamben: come nel diritto romano il filiusfamilias può
ricevere dal padre un peculium, di cui ha l'uso e non la
proprietà, così i frati minori sono parvuli e filifamilias del
pontefice, cui spetta la proprietà delle cose di cui essi hanno
l'uso.
E
d'altra parte, continua Agamben, il termine stesso fratres
minores aveva delle implicazioni propriamente giuridiche...In
quanto minori i francescani sono dal punto di vista
giuridico, tecnicamente alieni iuris, equiparati al
filiusfamilias e al pupillus sottoposto alla
tutela di un adulto sui iuris. Per la stessa ragione
essi possono essere assimilati al furiosus, che non può
acquistare per usucapione la proprietà di un bene, anche se esso si
trova in suo possesso.
E
l'insistenza con cui Francesco si qualifica come parvulus e pazzus,
sembra suggerire Agamben, poteva avere anche ragioni legate al
non-luogo giuridico in cui voleva situare sé e i suoi.
Scrive
Bonagrazia da Bergamo: "come il cavallo ha l'uso di fatto (sicut
equus habet usus facti) ma non la proprietà dell'avena che
mangia, così il religioso che ha abdicato a ogni proprietà ha il
semplice uso di fatto (usum simplicem facti) del pane,
del vino e delle vesti". Se, come testimoniano molti e famosi
episodi della biografia di Francesco, gli animali sono
umanizzati e diventano 'frati', per converso, i frati sono
equiparati, dal punto di vista del diritto, a degli animali, nota
Agamben.
Ma
è prima di tutto nel Vangelo e negli Atti che si trova la
giustificazione all'altissima povertà francescana e alla
sua proposta di usus. Ancora Bonagrazia: "i
frati minori seguendo l'esempio di Cristo e degli apostoli possono
rinunciare a ogni diritto di proprietà, mantenendo però l'uso di
fatto delle cose" (apostoli et fratres minores
potuerunt a se abdicare dominium et proprietatem omnium rerum...et
sibi in omnibus rebus tantumodo usum facti retinere).
Siamo
ancora dentro il diritto o già fuori? Alcuni studiosi ritengono che
il simplex usus sia per i francescani un diritto
reale, altri notano che qui il diritto produce il suo contrario: un
vuoto giuridico. Osserva Agamben: se è certo che
l'argomentazione giuridica è qui volta ad aprire uno spazio al di
fuori del diritto, altrettanto certo è che la disattivazione del
diritto è operata non dal diritto stesso, ma attraverso una prassi -
l'abdicatio iuris e l'uso - che il diritto non produce ma
riconosce come esterna a sé.
Eppure
non è a partire da questa prassi, e dalla forma vitae che
la contiene, che i teorici francescani danno battaglia, piuttosto si
spostano sempre di più nel terreno, tutto teorico e tradizionale,
dell'avversario, finendo per soccombere.
Con
la bolla Ad conditorem canonis (1322), Giovanni
XXII abroga la decisione dei suoi predecessori, che avevano
riconosciuto la liceità giuridica dell'usus facti francescano,
affermando invece l'inseparabilità dell'uso dalla proprietà,
attribuendo all'ordine la proprietà in comune dei beni di cui fa
uso. Riprendendo il diritto romano, il papa afferma che nelle cose
consumabili, come cibo, bevande, vesti e simili, cioè quanto era
essenziale alla vita dei frati minori, è impossibile separare la
proprietà dall'uso, perché non si tratta più di usus (che
riguarda tradizionalmente solo i beni che possono essere usati senza
distruggerne la sostanza) ma di abusus (il diritto
comune definiva appunto la proprietà come ius utendi et
abutendi).
Ne
nasce un'accesa battaglia filosofica e giuridica, all'interno della
quale, a titolo di esempio trai tanti citati da Agamben, Guglielmo di
Ockham cerca una mediazione col pontefice provando a mantenere per i
francescani uno spazio, sempre minore, di libertà dal diritto
tradizionale. Riprendendo anch'egli un principio del diritto romano,
il caso di estrema necessità, Ockham afferma
che i francescani, nelle circostanze comuni, non hanno diritto d'uso
giuridico (ius utendi positivum) ma
semplice licenza d'uso, mantenendo però un
diritto d'uso naturale in caso di estrema necessità. Quello
che per tutti è normale (avere diritti sulle cose
proprie), per i frati minori vale solo in caso di estrema necessità
(e anche in questo caso si tratta di un diritto naturale, non
positivo), per il resto del tempo la definizione più adeguata al
rapporto con le cose è quello di una mera licenza d'uso.
Ma
qui i teorici francescani cominciano a entrare troppo direttamente in
un terreno di cui non conoscono, e forse nemmeno riescono chiaramente
a concepire, i fondamenti. Eppure da una parte, nota Agamben, questi
fondamenti non li mettono mai in questione, anzi usano la stessa
lingua del diritto; dall'altra pensano di poter assicurare
con argomenti giuridici la possibilità, abdicando al diritto, di
condurre un'esistenza fuori dal diritto. (..) Francesco è stato più
preveggente dei suoi successori, rifiutando di articolare in una
concettualità giuridica e lasciando indeterminato il suo vivere sine
proprio. Quello che manca nelle elaborazioni dei teorici francescani
è insomma una definizione dell'uso in se stesso e non
soltanto in contrapposizione al diritto, scrive Agamben.
Eppure
non mancano, nella grande letteratura cristiana, i presupposti a una
possibile teoria generale dell'uso. La preoccupazione di
costruire una giustificazione dell'uso in termini giuridici, nota
Agamben, potrebbe avere impedito di raccogliere
gli spunti di una teoria dell'uso presenti nelle lettere paoline, in
particolare nella Prima ai Corinzi, 7, 20-31, in cui l'usare il
mondo come non usandolo o non abusandone (tamquam non utantur o,
nell'originale greco, hos me katachromenoi, che
sta per come non abusanti) definiva la
forma di vita del cristiano e avrebbe potuto fornire un utile
argomento contro le tesi di Giovanni XXII sull'uso delle cose
consumabili come abusus.
Ma
anche il lascito di Francesco, in molte parti, poteva offrire
direttamente spunti inequivoci a proposito. In un passo importante
delle Admonitiones citato da Agamben ad esempio, il
fondatore definisce il peccato originale come l'appropriarsi, da
parte dell'uomo, della sua stessa volontà ('mangia dall'albero
della conoscenza del bene e del male colui che si appropria della sua
volontà e si esalta per i beni che il Signore opera in lui').
Una posizione teorica del genere, espressione teologica dello spirito
francescano, rappresentava una cesura spettacolare con il
contesto: proprio quando nell'elaborazione della teologia
scolastica, nota Agamben, la volontà era diventata
il disposititvo che permetteva la definizione della libertà e della
responsabilità dell'uomo come dominus sui actus, nelle
parole di Francesco la forma vivendi dei frati
minori è invece quella vita che si mantiene in relazione non solo
alle cose, ma anche a se stessa sul modo dell'inappropriabilità e
del rifiuto della stessa idea di una volontà propria.
Ma
è in particolare in un autore francescano, Pietro di Giovanni Olivi,
che Agamben individua la personalità che con più chiarezza e forza
trae dalla visione e dalla prassi dei minores indicazioni
che sarebbero state capaci di indirizzare il percorso del movimento
in tutt'altro luogo e che possono ridare anche a noi, pur nella
lontananza di tempi e contesti, uno stimolo a un'elaborazione odierna
di questioni rimaste sostanzialmente inevase.
Due
sono i passi di Olivi che Agamben chiama in causa. Uno che
decisamente contesta il valore essenziale dei
segni, sia civili che religiosi, dichiarandoli reali sì,
ma solo in quanto gesti esistenziali, né più né
meno che la forma vitae francescana, che appare
allora come un legittimo terzo tra liturgia e
diritto. E l'altro che, coerentemente, sposta dunque in un discorso
escatologico l'essenziale, individuando nella vita di
Cristo il compimento di tutte le vite e la vita ultima.
Vale
la pena di provare, come sforzo archeologico finale, a entrare
brevemente almeno nel secondo di questi due testi, col quale si
chiude anche la ricerca di Agamben.
Nell'ottava
questione De perfectione evangelica, Olivi accetta
le tesi gioachimite sulle sei età del mondo, scrive
Agamben, ripartite secondo tre status: il Padre
(il Vecchio testamento), il Figlio (il Nuovo Testamento), lo Spirito
(fine e compimento della legge), a cui egli aggiunge l'eternità come
settimo tempo. Ciò che definisce però, secondo Olivi, l'eccellenza
del sesto e settimo tempo è l'apparizione non semplicemente della
"persona" di Cristo ma della sua "vita": 'Il
sesto e settimo tempo non potrebbero costituire la fine dei tempi
precedenti, se in essi la vita di Cristo non apparisse in modo
particolare e unico e se, attraverso lo spirito di Cristo, non fosse
allora data al mondo la pace particolare dell'amore di Cristo e della
sua contemplazione. Come, infatti, la persona di Cristo è la fine
del Vecchio Testamento e di tutte le persone, così la vita di Cristo
è la fine del Nuovo Testamento e, per così dire, di tutte le vite.
Si
rifletta sulla teologia della storia che è implicita in queste
tesi commenta Agamben. L'avvento dell'età
dello Spirito coincide non con l'avvento della persona di
Cristo (che definiva il secondo stato) ma con quello della
sua vita, che costituisce la fine e il compimento
non solo della nuova legge ma anche di tutte le vite (il 'per così
dire' - ut ita dicam - mostra che Olivi è
perfettamente cosciente della novità della sua affermazione). Certo
la vita di Cristo era apparsa anche nelle epoche precedenti
(...)Tuttavia è solo alla fine dei tempi che essa può manifestarsi
'secondo la piena conformità alla sua unicità e alla sua forma' . E
come, al momento del primo avvento di Cristo, era stato eletto 'come
profeta e più che profeta' Giovanni il Battista, così nell'ultimo
tempo è stato scelto Francesco per introdurre e rinnovare la vita di
Cristo nel mondo (ad introducendam et renovandam Christi vitam in
mundo).
Lo
specifico carattere escatologico del messaggio francescano, conclude
Agamben, non si esprime in una nuova dottrina, ma in una forma di
vita attraverso cui la stessa vita di Cristo si fa nuovamente
presente nel mondo per portare a compimento non tanto il significato
storico delle "persone" nell'economia della salvezza,
quanto la loro vita come tale. La forma di vita francescana è, in
questo senso, la fine di tutte le vite (finis omnium vitarum),
l'ultimo modus dopo il quale non è più possibile
la molteplice dispensazione storica dei modi vivendi.
L''altissima povertà', col suo uso delle cose, è la forma-di-vita
che comincia quando tutte le forme di vita dell'Occidente sono giunte
alla loro consumazione storica.
E,
in una breve e quasi amara postilla, ecco come chiude il suo libro
Agamben, aprendolo al capitolo successivo, a quell'ultimo tassello
di Homo sacer che riguarderà proprio un ambizioso
tentativo di teoria generale dell'uso: Come può l'uso
- cioè una relazione al mondo in quanto inappropriabile - tradursi
in un ethos e in una forma di vita? E quale ontologia e quale etica
corrisponderanno a una vita che, nell'uso, si costituisce come
inseparabile dalla sua forma? Il tentativo di rispondere a queste
domande esigerà necessariamente un confronto con il paradigma
ontologico operativo nel cui stampo la liturgia, attraverso un
processo secolare, ha finito per costringere l'etica e la politica
dell'Occidente. Uso e forma di vita sono i due dispositivi attraverso
i quali i francescani hanno cercato, in un modo certamente
insufficiente, di spezzare questo stampo e di confrontarsi a quel
paradigma. Ma è certo che solo a partire dalla ripresa del confronto
in una nuova prospettiva potrà eventualmente decidersi se e in che
misura quella che si presenta in Olivi come l'estrema forma di vita
dell'Occidente cristiano ha, per esso, ancora un senso o se, invece,
il dominio planetario del paradigma dell'operatività esige di
spostare il confronto decisivo su un altro terreno.
II
Si
tratta evidentemente di un pensiero vivo che come tale provoca chi ne
entra in contatto. Agamben è un filosofo appassionato che usa egli
stesso le proprie fonti in una prospettiva militante. Molte cose
preziose e anche molte contraddizioni e oscurità emergono alla
superficie di un discorso che, provocati da alcuni passi del libro,
siamo tentati di trasporre all'oggi, o del quale almeno vorremmo
trattenere alcuni accenni, gettandoli sul tavolo di una possibile
attualizzazione. Ovviamente si tratta di qualcosa di iniziale:
un come pensare a tutto questo, cioè a una
fondazione o rifondazione di un pensiero e di un atteggiamento che,
nella storia occidentale hanno avuto infine poca influenza e che oggi
appaiono ai più, coerentemente, ormai persino impensabili.
Centrale
mi sembra la formula vita che nell'uso si costituisce come
inseparabile dalla sua forma, vita non teorica ma applicata,
e però applicazione coerente e intenzionale, uso che
non è atto neutro, uno dei tanti possibili, ma modo proprio,
abituale del soggetto di vivere la realtà. Siamo lontani da un'idea
del genere, abituati a considerare piuttosto la proprietà come
modo proprio della nostra forma-di-vita e a frequentare l'uso come
qualcosa di intermittente, di festivo, di eccezionale, in questo caso
tollerati appunto come filifamilias dagli adulti. I
quali d'altra parte, a furia di centrare sulla proprietà e sul
possesso la loro vita, hanno finito per distruggere quasi ogni forma
di legame sociale (istituzionale, religioso, parentale o politico che
sia), così da rendere infine urgenti l'elaborazione e l'esercizio di
una forma di vita radicalmente alternativa alla loro. Potremmo
infatti essere presto obbligati proprio a un usus
simplex delle cose, la cui proprietà avrà perso del tutto, o in buona parte, il suo valore. Una discussione sui fondamenti di una teoria dell'uso
ci aiuterebbe ad affrontare degnamente un futuro del genere,
inquietante non in sé ma in rapporto alla paurosa inadeguatezza nostra e delle elites che ci governano. Viene da chiedersi: di che entità
diventeremmo filifamilias? Essere figli presuppone
una paternità, cioè infine anche un affetto e un rispetto, qualcosa
che nessuna istituzione sembra assicurare. Abdicando per sé al
diritto e alla proprietà, il soggetto accetta che il potere si
sposti sempre più in alto e si accumuli. Nelle mani di chi e di che
cosa? In questo senso definire cos'è bene comune e
allargare l'ambito di applicazione di questa definizione,
rivendicando per essa una legittimità giuridica reale, appare
decisivo. Come decisivo sarà poi modellare istituzioni nuove sulla
base di questa allargata consapevolezza della necessità di
un uso comune di una realtà che è finita in
estensione e che chiede di essere interrogata in profondità. Vengono
in mente l'immagine paolina della creazione che si tormenta nelle
doglie del parto e, in tutt'altro e più recente contesto, le parole
di Franco Basaglia, quando diceva che dobbiamo sostituire, come
fondamento delle nostre società, l'etica del lavoro che le ha
fondate, con l'etica delle relazioni che sola può farle vivere
degnamente. Il lavoro come interno alle relazioni e
non viceversa: come appare provocatoria un'affermazione del genere,
non solo a un ministro o a un economista ma anche alla maggior parte
di noi!
Agamben
sembra immaginare due forze e due ricerche convergenti: un pensiero
che, ispirato dagli esempi d'uso, sia capace di elaborare un'etica e
un'ontologia conseguenti e, specularmente, una forma-di-vita capace
di non transigere sulla propria coerenza
di vita e forma inseparabili,
fondate sulla non appropriazione e sul semplice uso.
Le
parti oggi al lavoro in vario modo su una teoria e una prassi
dell'uso, o su una sequela che ha nell'uso senza proprietà un
proprio elemento costitutivo, in realtà sono moltissime ma i
presupposti disparati a partire dai quali operano le rendono inabili,
o poco interessate, al dialogo tra loro e a una riflessione sulle
implicazioni sociali dei loro comportamenti. La cosa potrebbe non
essere un male, giacché non è in una omogeneizzazione e in un abbraccio
indistinto di queste spinte che sta la soluzione, ma nella necessità
di dare loro una sponda anche giuridica che le renda legittime e che
le aiuti a influenzare l'elaborazione di proposte nuove nelle sedi
dove si plasmano le regole del vivere insieme.
Anche
la parabola del francescanesimo appena ripercorsa ci parla di questo:
la libertà di una sequela non può essere costretta in una teoria
generale, in una regula, è piuttosto ospitata in quel
campo di forze che è vita et regula, una formula
che potrebbe andare bene anche oggi, per esempio applicata alla
necessità di un rapporto vivo tra società e politica, tra soggetto
e istituzione, in un momento di stanchezza in cui le istituzioni
tendono a considerare il cittadino come oggetto passivo di politiche
elaborate in luoghi distanti dalla sua vita reale e, specularmente,
il cittadino si è disabituato a pretendere dalle istituzioni
qualcosa di più che un'amministrazione efficace dell'esistente.
Sembra
che più che la forma vitae francescana, forma
che non è una norma imposta alla vita ma un vivere che, nella
sequela della vita di Cristo, si dà e si fa forma, come sintetizza
mirabilmente Agamben, conseguenza originale in cui si risolsero le
tensioni tra regola e vita per i minores, sia
proprio quell'ancora indistinto campo di forze tra regola e vita ad
apparire come il luogo più originario e dunque più utile a una
trasposizione odierna delle questioni.
Ma
oggi non è più chiaro di quale regola si stia
allora parlando o si possa parlare, perché se le esperienze che si
richiamano a una tradizione religiosa e spirituale hanno mantenuto un
qualche legame tradizionale capace di generare quel campo di tensione
necessario a una vitalità non distruttiva (il problema semmai
essendo quello di come partorire, al loro interno, personalità
capaci di vivere in questa tensione, che l'esperienza in atto
renderebbe sì diponibile ma che evidentemente non pare a molti
desiderabile), le esperienze che oggi nascono nella società civile
si trovano davanti a un tale caos nel campo delle eredità storiche e
a una così esasperata velocizzazione e mediatizzazione dei processi,
che è per loro difficile lavorare su sintesi sufficientemente
meditate, finendo per rischiare di essere confinate nel piano
emergenziale, piano nel quale è più facile per l'istituzione
recuperarle o sopprimerle.
Perché
oggi è evidente che più che energie per una logorante battaglia
frontale, occorrono tempo e risorse per pensare e praticare qualcosa
di diverso da proporre apertamente, la battaglia avendo a che fare
più che altro con una calma difesa di principi sacrosanti sui quali
non si può, e non si deve negoziare e con la loro cocciuta
applicazione in pratica.
Francesco
stesso ha dimostrato che per cambiare il rapporto tra regola e vita
basterebbe incarnare coerentemente una forma di vita diversa rispetto
alla quasi-vita di chi è ormai solo esecutore di comandi non più
filtrati dall'elaborazione della coscienza o dal setaccio rozzo ma
inscalfibile di un tentativo di sequela. Tutto è qui in fieri:
dalla regola la vita e dalla vita nuove integrazioni alla regola.
Ovviamente mantenere vivo questo continuo rapporto tra vita vissuta e
pensiero attorno ad essa è difficile. Di solito una delle due parti
finisce per prendere il sopravvento. Come si è visto, le
elaborazioni di molti importanti teorici francescani risultarono
curiosamente staccate dal loro habitus e le
battaglie diventarono presto meramente ideologiche perché i
fondamenti del discorso e l'ambito di riflessione erano quelli del
contesto istituzionale (filosofico e giuridico) e non i propri (che
avrebbero dovuto avere un carattere marcatamente esistenziale, di
spiritualità applicata, per così dire).
Un habitus, quello
francescano originario, che oggi appare del tutto antimoderno, dato
che non accetta di estenuarsi nella propria casella, come esige
l'habitus industriale, ma tende a esorbitare e a rifiutare
risolutamente l'opera, nel senso anche generale di
un'attività esterna la cui realizzazione nobiliti o arricchisca il
soggetto che la compie, l'unica opera concepibile qui essendo
la vita stessa, da non barattare mai con null'altro ma da
vegliare perché rimanga integra, cioè aperta, disarmata, donata,
mantenuta in quella freschezza e disponibilità d'esordio, prima di
qualsiasi articolazione del rapporto tra soggetto e contesto
(professionale, sociale, giuridica che sia), che finirebbe per
diminuirne la forza di presenza e la potenza d'agape.
E
però l'unico modo in cui questa forza può rimanere disponibile è
nella sua messa in circolo continua e senza calcoli, cioè dentro la
società strutturata e strutturante (non è una fuga romantica:
perciò dà fastidio). La solitudine da una parte e una socialità
incosciente dei meccanismi con cui i poteri plasmano la nostra
presenza dall'altra, sono le due situazioni speculari in cui questa
forza viene costretta o a un'opera esterna da compiere o a
un'identificazione di vita e regola che finisce per rafforzare la
liturgia di cui si è parte, magari neppure coscientemente. In
entrambi i casi, opera (l'orgoglio di avercela
fatta) e liturgia (l'orgoglio di appartenere a un
gruppo) estenuano la vita, che rimane inusata senza prendere
mai forma, e quindi senza poter essere strumento di
cambiamento e di evoluzione.
Il
problema è ancora che questa forma è frutto di una
tensione tra vita e regola. Ma esiste oggi una qualche controparte
alla vita che non appaia archeologia? Esiste, nella
nostra percezione, un ambito istituzionale, o anche solo generalmente
comunitario, la cui esistenza ci sembri necessaria, ambito al quale
sentiamo di voler partecipare con un'intensità almeno paragonabile
all'intensità della percezione che abbiamo della nostra vita
individuale? Se i teorici francescani peccarono di intellettualismo,
noi rischiamo forse di esser preda di un vitalismo individualista che
finora è parso incapace di un pensiero minimamente collettivo.
E
ancora: la chiusa di Agamben, sorprendente, ci parla della sequela
della vita di Cristo come ultimo stadio storico della vita cristiana
e occidentale tout court. Ma come si può oggi tenere
assieme la sproporzione tra i frutti di una vita intesa come sequela
di un'Altra, riconosciuta maiuscola al di là di ogni dogma,
mantenuta il più possibile prossima alla fonte che continuamente la
nutre, una fonte che è una vita, non una teoria, e che
in quanto tale si propone a fondamento dell'intera esistenza di chi
vi si riconosce, e quelli di una vita vissuta tutta dentro le cose,
parcellizzata, estenuata, applicata interamente all'esistente, una
vita che riconosce magari certe eredità culturali, storiche,
filosofiche ma che mai può incarnarle fino in fondo, costretta
inesorabilmente all'operatività del contesto e alla schizofrenia
esistenziale che ne deriva (e d'altra parte questa scissione è il
male minore, la storia novecentesca stando lì a mostrarci i
risultati mostruosi di un'incarnazione solo ideologica)?
Lo
spazio per una sequela, spazio antico di un passaggio di testimone
tra passato e presente, tra maestro e allievo, gesto che spezza le
appartenenze familiari e castali, attingendo direttamente ed
esclusivamente a un modello eterno che ispira una condotta
orizzontale, fraterna, che non accetterà più di ritornare alle
comodità della propria tradizione ma si definirà solo nel darsi,
svuotandosi e riempiendosi continuamente, questa condotta ispirata,
pneumatica, continua a essere giudicata anacronistica, folle.
Soprattutto è la rinuncia all'opera che fatichiamo ad
accettare, la nostra scomparsa come soggetti di impresa e poi di
memoria, quel necessario dissolverci dentro un processo continuamente
rinnovato, perdendo perfino coscienza di che cosa sia risultato, o
meglio tralasciando per sempre il giudizio sulla nostra presunta
serie di risultati, a vantaggio di una presenza più sostanziale e
meno tattica: ancora e sempre, è difficile porsi così profondamente
fuori dal coro.
Oggi
poi tutto quello che ha a che fare con lo spirituale, le varie
risposte a quel bisogno profondo di compimento e di significato che
ha l'essere umano, continua a irritare una buona parte della società,
sembrandole, spesso a ragione, qualcosa di troppo identitario,
l'esatto opposto di una novità: i tentativi estremi di una
tradizione di dire la propria.
La
condotta di Francesco e dei suoi, agli esordi, incuteva timore e
inquietudine proprio perché si radicava dentro il comune retroterra
culturale di una società interamente cristiana, tutti comprendevano
da dove veniva e che cosa significava quello che Francesco proponeva
(in qualche modo fu davvero qualcosa che assomigliava allo shock che
furono Cristo e i primi cristiani per la società ebraica). Oggi un gesto che si richiamasse
così radicalmente al Vangelo sarebbe considerata forse
un'esagerazione ancora seducente per una parte di cattolici inquieti
ma null'altro che una stravaganza estetica per tutti gli altri, i
presupposti collettivi di quel gesto essendo scomparsi, diventati al
limite qualcosa come cimeli cosmetici, le radici del vivere rimanendo
ben salde a ciò che tutti consideriamo l'essenziale: la materia da
plasmare, su cui continuare a lasciare i nostri segni.
Ma
forse è proprio da qui che dobbiamo accettare di ripartire: da un
gesto estetico.
Francesco
stesso aveva fatto proprie modalità teatrali trasfigurandole e la
sua altissima paupertas, con la sua intrattabilità, la sua
indisponibilità a strutturarsi e la sua intimità con gli elementi,
gli animali e il margine dell'umano, è stata anche una grande
avventura poetica, un'esperienza capace di svelare la bellezza della
verità e, a specchio, la verità della bellezza. Tutto sempre
vissuto, e riportato solo quando se ne è obbligati, e anche in quel
momento paucis verbis et simpliciter.
Oggi
più che mai, è forse proprio forzando la casella genericamente
creativa in cui siamo tutti rinchiusi, che possiamo attingere a un
significato più compiuto per le nostre piccole biografie. Con un
gesto intrattabile, dobbiamo gridare, come scriveva Simone Weil, per
essere letti altrimenti, cioè guardati nella nostra
integralità umana, sfondando il soffitto della cella che sembrava
esserci data in sorte. A guardar bene, arte e santità hanno entrambe
a che fare con una concentrazione di forze, che si estrovertono in
una vita per il santo, in un'opera (ma arbitraria e ispirata) per
l'artista. In ogni caso, tutto il contrario della mollezza dello
spettatore creativo.
Francesco
viveva in una società semplice.
Per
la sua parabola il contesto assisano contò enormemente, cosa che
oggi è impensabile. Se ripercorriamo le biografie di figure
spirituali importanti più vicine a noi, assistiamo a vicende che
coinvolgono milioni di persone. Sembrerebbe che dal dispiegarsi della
società industriale in poi, una buona dose di mediatizzazione sia
inevitabile.
Eppure
nel '900 molti grandi, molti tra quelli che hanno contato, sono stati
grandi postumi, cioè non hanno voluto, in vita, spendere energie per
la propria autopromozione (quest'area delle biografie che si è
andata progressivamente allargando fino ad occupare la quasi totalità
della vita e delle energie vitali dei personaggi pubblici odierni) ma
hanno vissuto integralmente la propria esistenza come se vivessero, e
in effetti vivendo, esclusivamente in un piccolo contesto, nel quale
soltanto sembra possibile essere pienamente presenti.
La
qualità di queste vite, o di queste opere (giacchè questo paradigma
vale sia dentro che fuori la cultura operativa dell'era industriale)
è stata poi riconosciuta da una serie di discepoli che hanno diffuso
e fatto conoscere quell'esperienza. Se pensiamo alla vita di Charles
de Foucauld, all'opera di Franz Kafka, o all'inaudita miscela tra le
due di Simone Weil, vediamo che in questi casi, ma potremmo citarne tanti altri, non è stato possibile, o non è stato percepito come utile,
un rapporto frontale tra queste esperienze e i contesti, troppo
complicati, in cui avevano luogo. Piuttosto, appariva decisivo
sviluppare coerentemente la propria vocazione, fiduciosi che avrebbe
fatto luce in ogni caso. Oggi non sembra facilmente comprensibile né
una scomparsa mediatica fatta pro opere, meno che mai una
fatta pro vita, eppure proprio una scomparsa del genere,
in questa fase isterica e accelerata, sembrerebbe assicurare il
massimo rigoglio sia a una vita che a un'opera.
Nel
contesto in cui stiamo ragionando, sembra emergere ancora una volta
come centrale la proposta di una sequela, di
un'esperienza vissuta fino in fondo, di un esempio incarnato, di una
vita interamente spesa, bruciata in un fuoco di carità. E' una
proposta di azione e di economia delle energie che sembra però aver
poco a che fare sia con la vita della massa conforme (e questo è
scontato e in fondo poco problematico: Cristo stesso parlò di un
piccolo granello di senape, di qualche scaglia di lievito), sia con
la vita di molti che pur si impegnano per proporre alle istituzioni
una quantità sufficiente di correzioni alle proprie regole, così da
provare a rendere il mondo meno ingiusto (e questo invece è più
problematico, fonte di incomprensioni tragiche e meno aspettate).
Arturo Paoli rimproverava ai cattolici di non essere affidabili
politicamente forse proprio a causa di questo residuo soggettivo, di
quest'attitudine individuale che non accetta di mischiarsi con la
legge, riconoscendo la sequela di Cristo come unica legge. Per il
vecchio e acuminato petit frère, se l'ho capito a
dovere, in questo modo si rischia però di tradire la Scrittura, che
parla di una promessa fatta a un popolo, in vista di un Regno, non a
una somma di soggetti singoli, per quanto santi. Il suo stesso
maestro Padre Charles De Foucauld, consumando fino in fondo la
propria sequela, non potè infine sottrarsi a gesti politici, che
chiamavano in causa la dignità e la libertà del popolo Tuareg in
mezzo al quale viveva, come presupposti a una evangelizzazione degna
di questo nome.
D'altra
parte l'informalità evangelica, la sua natura profetica,
extra-istituzionale, la sua fiducia incrollabile nell'uomo creato a
immagine di Dio ci parlano di una vita in grado di
svilupparsi e di trovare i propri fondamenti in un luogo
sostanzialmente diverso dal diritto, e da ogni scorciatoia sociale,
alla cui sommità c'è sempre un potere terreno e un'organizzazione
funzionale, operativa. Quello che si dovrebbe concorrere a compiere,
sarebbe piuttosto un luogo nel quale, cosa inaudita, lupo ed
agnello pascoleranno assieme, scenario postumo a ogni
disputa legale, regno di Dio vissuto.
Tra
gli sguardi sarcastici dei potenti, quelli sconcertati degli
operatori sociali che operano, magari bene, senza nessun fondamento
escatologico né attenzione a una sequela, quelli preoccupati dei
parenti, ben saldi alla porzione di benessere faticosamente
acquisito, l'uomo e la donna che oggi, ancora, decidono di seguire
Cristo, devono prima di tutto accettare un'infinita solitudine, un
vuoto che solo permetta di dire, con Paolo: non sono più io
che vivo ma è Cristo che vive in me.
Forse
la fede è semplicemente questo: avere fiducia che questo impegno
radicale non è vano ma concorre, senza che io ne abbia il controllo
né lo possa mai storicizzare, al compimento di un regno fondato non
sul diritto ma sull'agape. E questa trasfigurazione e
vivificazione è sempre in atto, sempre e dovunque, anche all'interno
delle dispute che parrebbero più desolantemente operative e
materiali. Anzi è proprio in quei contesti dove una parola d'amore è
inattesa, uno sguardo disarmato imbarazza, una fragilità
infastidisce o è ridicola che possiamo capire con chiarezza la
necessità di un impegno al presente: è oggi che siamo chiamati,
altro tempo non c'è.
Alessandro
Berti
Monteforte,
luglio 2012
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