Pubblicato in
Francesca Proia
DECLINAZIONI YOGA DELL'IMMAGINE CORPOREA
Titivillus, 2011
"Il
devoto deve agire solamente nell'interesse diretto o indiretto delle
creature.
E nell'interesse appunto delle creature, tutto deve subordinare al risveglio" Santideva, Bodhicaryavatara, V,
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Premessa
Ogni equilibrio è provvisorio, variabile. Il ciclo respiratorio dei mammiferi, azione vitale involontaria fatta di accoglimento e scarico, parla di questa mobilità naturale. Servono molte cose diverse a nutrire nel modo più adeguato la vita. In generale, più siamo lievi nel parlarne, più ci avviciniamo a ridare delle cose un'immagine autentica. Umiltà di uno sguardo che spazia su un panorama immenso.
Asceti, mistici
Vie verso una giusta posizione interiore
Mi ha sempre colpito la distinzione buddhista tra arhat e bodhisattva. L'arhat è il santo solitario, l'asceta. Il bodhisattva è il mistico, il profeta. Uno si ritira in campagna, l'altro s'incammina sulle strade del mondo. A dire il vero, il bodhisattva è egli stesso un arhat, che a un certo punto rinuncia a conseguire la propria beatitudine, la pace definitiva della fine delle rinascite, per illuminare altri uomini riguardo al cammino della salvezza.
La distinzione è brutale, come ogni teoria umana, la realtà più sfaccettata. Tuttavia è illuminante. Prima di tutto c'è da osservare che entrambi sono arhat. Cioè l'ascesi, la purificazione, il lavoro su di sé, la disciplina sono presupposti di ogni vocazione. Solo quando questa disciplina si è consolidata può darsi l'evoluzione del percorso: l'unione mistica e la chiamata profetica.
Può darsi ma in effetti non è molto comune. Nel frattempo, la maggioranza che non diventerà mistica ha acquisito un'attitudine ascetica, si è placata.
Il percorso ascetico è scomodo. Per questo deve essere imposto da un maestro. Pochi lo sceglierebbero naturalmente. In effetti, si tratta proprio di andare per un certo tempo contro natura. Il rapporto maestro-allievo è uno dei cardini del buddhismo e forse di ogni disciplina spirituale o filosofica, per come erano concepite nell'antichità.
Personalmente, sono sempre stato molto attratto dall'ascesi, non è distante dal rigore naturale del mio carattere. Così ho più presenti i rischi della mortificazione, del bisogno d'ordine, dell'ideologia che non quelli della falsa mistica (uso di sostanze, voracità sessuale, visionarietà...). Può essere che in questo caso quello che mi accingo a scrivere non sia troppo avvincente. Posso sperare almeno che sia sottile. Se non sarà né l'uno né l'altro cercherò almeno di badare alla grammatica.
Mi sembra che il modo migliore per pensare il rapporto tra ascesi (purificazione, disciplina, studio, controllo) e mistica (dono, abbandono, disinteresse di sé) sia considerarle sempre due parti essenziali di un'unica realtà, come l'inspirazione e l'espirazione sono tutto il ciclo respiratorio. E, in particolare, considerare l'ascesi come un presupposto della mistica, come la zattera che ci porta dall'altra parte del guado, per usare ancora un'immagine buddhista. Una volta arrivati all'altra riva, ci viene poi suggerito, la zattera va abbandonata.
Anche in questo passaggio c'è bisogno di un maestro. Sulla zattera non fu semplice decidere di salire, non lo è di meno avere il coraggio di scendere. L'abitudine si è talmente attaccata a noi che abbiamo la tentazione di rimanere tutta la vita traghettatori. Ogni ritmo ci culla, ogni circolarità ci placa. La linea retta è un'astrazione ideale, la realtà è smussata, tondeggiante, respira ma forse è immobile. Così almeno ci pare nei momenti di sconforto. Ecco il rischio dell'ascesi: diventare vecchi operai abitudinari, devoti praticanti impigriti dalla stessa, dolce sequenza di azioni.
Se pensiamo che la pienezza della vita sia racchiusa in un qualche stato di unione mistica con le cose e sentiamo, dopo un certo periodo di ascesi, la chiamata verso questa pienezza, dobbiamo augurarci che una volta sbarcati sull'altra riva, la zattera venga portata via dalla corrente, così da toglierci la tentazione di tornare indietro. Una volta arrivati nella bella regione dove non si respira che abbandono, come si esprime un mistico cristiano e dove ha inizio il possesso di Dio mediante l'amore, non dovremmo più guardarci indietro.
Se invece questo abbandono pare superiore alle nostre forze, affineremo fino alla fine gli strumenti del nostro artigianato. La rinuncia a uno stato di pienezza diverso dalla forza dell'abitudine può essere l'effetto di molte cause anche disparate. Pigrizia, paura, capitolazione di fronte alla vecchiaia o ai propri vizi caratteriali ma anche, al contrario, segno di profonda umiltà, estrema conoscenza di sé, saggezza.
Se è vero che non c'è autentica unione mistica senza una certa stabilità caratteriale, per chi non può attingere a questa stabilità una vita ascetica sarà un modo per provare ad ottenerla attraverso un protratto esercizio della volontà. E spesso, in virtù di una dinamica paradossale, questo tentativo rigoroso e umile viene premiato, finendo per colorarsi proprio di purissime venature mistiche, distillate nello sforzo. Oggi che questa stabilità psicologica sembra così rara, forse i migliori tra noi attingono a stati mistici intermittenti, frutti sghembi di ascesi autoprodotte.
Due precisazioni a questo punto sembrano utili.
- Parlare di uno stato mistico intermittente è un po' fuorviante perché le prime cose che vengono in mente a proposito sono propio le cosiddette liberazioni (sessualità seriale, ebbrezze, estasi alimentari), passatempi che abbracciamo sfiniti quando non resistiamo più a fare i bravi, per poi tornare agli ordini di casta. Non è a questa falsa mistica, frutto di una falsa ascesi, che mi riferisco. Ho scritto venature mistiche di una vita ascetica proprio per continuare a tenere le due cose felicemente avvinte, come accade in ogni autentico percorso spirituale.
- E' però vero che di fronte a tutto questo siamo soli. Maestri certi libri, più che altro. Esempi in carne ed ossa essendo pochi e troppo appartati. Così, oggi, si può dire che quasi ogni percorso di ascesi è autoprodotto ed ha colori propri. Se questa libertà ha il vantaggio di verificare continuamente la maturità della nostra coscienza, rischia però di dare frutti mostruosi, troppo legati alle nostre caratteristiche psicologiche e quindi ancora egoici.
Era proprio il rapporto con un maestro, una comunità e una dottrina a scongiurare derive arbitrarie, percorsi modellati più sui nostri limiti che sulle nostre tensioni ideali. Lo sguardo impietoso di buoni maestri e ruvidi compagni di cammino aveva il compito di ricordarci che il carburante della ricerca non sono i sogni di gloria del soggetto ma il desiderio di attingere a qualcosa di oggettivo di fronte a cui inchinarci, finalmente.
La parola desiderio può sembrare estranea a una grammatica spirituale e nella tradizione indiana si parla infatti, con un tocco di deliziosa tolleranza, di ultimo desiderio (mumuksutva), concedendo che l'estrema energia dell'attrazione possa avere come oggetto proprio la liberazione da ogni attrazione, per poi venire archiviata anch'essa come un mezzo ormai inservibile, una volta liberati. Siamo sempre nei pressi dell'immagine della zattera.
Vorrei ora tornare brevemente alle variabili dell'unione di ascesi e mistica all'interno di una pratica.
Si è detto che un'ascesi ben praticata, senza eccessi ideologici né tristezza, distilla gocce di pura mistica, sprazzi di oblio di sé e dono completo. Sprazzi né rari né rabdomantici ma perle ricorrenti e sempre più abituali, qualcosa di festivo che s'insinua prima a scadenze quasi regolari (ma non decise da noi) poi più spesso e a ritmo libero, nel quotidiano feriale di una vita ascetica.
Ma come parlare invece di chi il dono mistico l'ha ricevuto nascendo?
Non
so se ne abbiate mai incontrati ma molti indizi sembrano confermare
l'esistenza di marziani (come un professore chiamava la sua allieva
geniale, che diventerà la figura mistica più sconvolgente del
novecento) per i quali l'ascesi pare avere una funzione inversa
rispetto a quella fin qui indicata: non di pavimento strutturale sul
quale tentare il salto mistico ma di concretizzazione liberatoria di
uno stato mistico vissuto come quotidianità estenuante.
A chi è stata donata stabilità caratteriale in quantità sovrabbondante e un'attrazione così potente per la verità da travolgere subito e del tutto ogni altra umana cura, lo stato di unione mistica con le cose è una situazione abituale. Per questi esseri segnati da una dismisura che non si son scelti né conquistati, la disciplina, l'umiliazione e in generale il chinarsi sulle cose con cocciuta pazienza ha forse il sapore di un riposo paradossale, un necessario ritorno periodico nei pressi dell'umana pesantezza che faccia da zavorra all'impeto devastante che tira in alto, un impeto che senza questo contrappeso rischierebbe di strapparli alla vita.
Eppure, in entrambi i casi (ascesi venata di regali mistici e, più raramente, stato mistico puntellato dall'ascesi) quello che si tenta è una conversione verso il centro: la ricerca, e forse la scoperta, non tanto di un punto di equilibrio quanto di una posizione, una posizione in cui metterci che permetta al Soffio di passare attraverso il contenitore psicofisico che ci è stato affidato.
E qui siamo arrivati in prossimità della questione.
In
quale posizione dobbiamo trovarci per far passare
questo Soffio?
Tentiamo prima di tutto una definizione.
Con Soffio indico piuttosto fedelmente e tradizionalmente qualcosa che per me è quel che c'è di più bello, di più augurabile, di più pieno in questa vita: l'arrivo della grazia, della bellezza, della verità in noi, la rivelazione attiva e operante del Brahman-Atman, l'entrata sconvolgente dello Spirito, qualcosa che, comunque venga chiamato, è sempre un regalo di quello che i seguaci del Buddha Amida chiamano tariki, potenza dell'Altro sbocciata in noi e mai frutto diretto della nostra volontà, disciplina, intelligenza, per quanto grandi.
E' però vero che proprio in virtù di un radicale cambio di posizione delle nostre facoltà si crea uno spazio per questo dono. In questo senso possiamo dire che l'ascesi prepara alla mistica. Tuttavia non la causa direttamente (lo stato mistico potrebbe non arrivare mai), ci aiuta a metterci nella giusta posizione ma è chiaro che la natura dell'irruzione mistica, se mai quest'irruzione avrà luogo, sarà del tutto altra rispetto all'umanità feriale, anche ascetica. Con la quale però sta in rapporto stretto, pur se non automatico e anzi paradossale, misterioso (da cui l'etimo della parola mistica).
I Vangeli descrivono bene questo vento scompaginante, dove mistica e ascesi non sono più facilmente individuabili ma tutto si alza e vibra in un'unità sconcertante, vitale e contraddittoria.
Rimane che ciò che possiamo fare noi (la nostra jiriki, potenza del sé, per riprendere la distinzione del buddhismo shinshu) esiste e ha a che fare appunto con la nostra posizione. Solo in una certa posizione possiamo sperare di ricevere qualcosa. Uno sguardo integralmente provvidenziale considererebbe anche l'intuizione di questa posizione come dono di grazia, chi scrive la vede invece come il terreno della massima collaborazione tra libertà della coscienza e Bene (torno platonico per non infastidire nessuno).
La posizione cristiana
Il cristianesimo parla sempre di una posizione interiore, di un volgersi a Dio che poi diventa un volgersi all'altro. Considera l'essere umano come indiviso, trasfigurabile dall'azione dello Spirito ma non articolabile nelle sue parti. O almeno considera questa articolazione come priva di interesse. In questo senso ha una fiducia assoluta nella nostra potenzialità mistica, nella nostra capacità di salvezza integrale.
Questa fiducia permette certe derive immaginarie ma ha il vantaggio di lasciare uno spazio quasi illimitato alla crescita della coscienza individuale. E' una religione strana: accetta di perdere molti purché pochi diano una luce accecante. In questo c'è qualcosa di radicale, di appassionato, di folle, un fondo sconvolgente di ottimismo ontologico, una trasparenza.
Per come la vedo io, il cristianesimo non è una disciplina dei particolari, una costruzione pedante di modellini di pseudo-santità ma una scommessa vertiginosa sulla dismisura d'amore come segreto ultimo della vita e suo motore.
Il fatto che Cristo sia Figlio di Dio, cioè inarrivabile, sembrerebbe negare questo ottimismo. Ho sentito monaci buddhisti esprimere stupore, disagio riguardo al dogma dell'Incarnazione. E bisogna ammettere che anche per qualche cristiano questa distanza sostanziale è causa di un disagio della ragione. Ma è proprio l'Incarnazione il carburante più intimo del cristianesimo, nonché una fonte di pace per la maggioranza dei suoi praticanti. Che questa pace possa condurre a condotte tartufesche e a pigrizie devote è certo e riguarda ancora l'inusitata libertà che viene data alla coscienza. Ma è altrettanto certo che la pace che deriva dal sapersi figli adottivi di un Dio incarnato ha delle conseguenze profonde sulla natura e i modi dell'impegno spirituale dei cristiani e del loro operare nel mondo.
Vorrei provare a guardare per un attimo tutto questo dall'esterno e, tentando uno sguardo nudamente interculturale, vedere questa pace che viene dall'intuizione dell'Incarnazione come potrebbe vederla un buddhista, cioè anche solo come un upaya, un mezzo abile che porta alla salvezza.
Se il modello iniziale fosse umano, pienamente e completamente, si creerebbe nei seguaci qualcosa come un'isteria da classifica. Se l'emulazione fosse davvero possibile fino in fondo, ogni praticante si chinerebbe sul proprio progetto di vita con un occhio sempre attento alla riuscita, dimenticando così proprio il mezzo principale attraverso cui giungere alla salvezza, che per i cristiani è un'attenzione e una presenza d'amore costanti nei riguardi del prossimo.
E' questo autismo spirituale di chi cerca di salvarsi da solo che ho chiamato modellino di pseudo-santità. La certezza di un fallimento rispetto a Cristo invece dà allegria perché rende tutto più fluido, qui tra noi mortali: apre lo spazio all'amore. A una trasfigurazione sostanziale per via di croce e seconda nascita, quella mistica. Proprio perché il fallimento rispetto al modello di Cristo è scontato, è possibile una nostra vittoria come uomini, assieme.
Si vede bene come questa tensione verso la salvezza di tutto un popolo di Dio e non di una somma di singoli soggetti devoti sia fortemente collegata al comandamento nuovo dei Vangeli, a un possibile contagio d'amore che trasformi le solitudini in comunità, il solipsimo in mutuo appoggio. Dal punto di vista cristiano la tranquillità che deriva dall'accettazione dell'Incarnazione è dunque, oltre che una conseguenza di un atto di fede, e come tale qualcosa di misterioso, anche un upaya efficace.
Mi sono attardato su questo punto perché è soprattutto rispetto alla posizione proposta all'uomo che l'Incarnazione ha un significato sostanziale. E' necessario che io vada perché scenda su di voi lo Spirito dice Cristo ai suoi e questa frase chiarisce che da questo momento omne donum perfectum desursum est come recita il titolo di un sermone eckhartiano: il dono più perfetto viene dall'alto. E viene per effondersi nell'uomo, chiamato poi a usarlo sulla terra, a riempirsene tanto da spanderlo attorno, ad accoglierlo ma solo per donarlo, a ospitarlo non per possederlo ma perché continui il suo transito. L'uomo rimane un servitore della verità, un operaio nella vigna. Non c'è altro limite che la morte a questa continuità nel donarsi. Senza paragoni né classifiche, gli viene chiesto di dimenticarsi di sé nel darsi all'altro, fino alla fine.
La posizione spirituale del cristiano è dunque una, semplice e quasi impossibile a un tempo. L'inginocchiarsi o lo sdraiarsi a terra proni parlano di questo prostrarsi nell'attesa, di questa richiesta di esser presi, rapiti, riempiti. E questa attitudine umile dovrebbe contagiare tutte le altre posizioni interiori, dar vita in effetti a una serie pressoché infinita di posizioni, non codificate ma ispirate, reattive, prese al momento del bisogno e poi abbandonate. Una dimenticanza completa di sé porta alla dissipazione, raggiunta attraverso il logoramento che proprio un infinito riposizionarsi in funzione degli altri ha provocato.
Nebbia
Riflessioni sulla ricezione occidentale di opere sapienziali dell'Oriente antico
Non ho dedicato allo studio e alla pratica di discipline spirituali di origine orientale una quantità di tempo paragonabile a quella che ho dedicato allo studio, alla ruminazione e al tentativo di messa in pratica del cristianesimo. Ma per quanto ho cominciato a intuire in questi pochi anni di indagini nel terreno della ricerca spirituale a sfondo interreligioso e interculturale, mi sembra di assistere a qualcosa come un tradimento, o almeno un'assimilazione frettolosa e interessata di molte fonti di letteratura filosofica e spirituale dell'Oriente antico, coscientemente mutilate per adeguarle ai bisogni dell'individualismo borghese.
Mi sorprende trovarmi così spesso di fronte a una presentazione di testi sapienziali orientali di volta in volta o disinvoltamente sradicati dai loro contesti (la miriade di parafrasi del Daodejingche troviamo a due euro nelle edicole delle stazioni), o ridotti a cadaveri per autopsie accademiche (in un comparativismo freddo che spegnerebbe anche la più autentica vocazione), o infine tradotti e usati in modo interessato da certe sette esoteriche che li semplificano e plasmano a loro piacimento. In tutti questi casi quello che manca è il rispetto per la fonte, una riflessione sul modo più efficace per presentarla a noi senza violarla, difendendone la natura profonda di strumento di perfezionamento e crescita umana.
La stessa perplessità mi coglie di fronte all'invasione di pratiche fisiche di origine orientale mutilate della loro parte teorica, delle loro venature ascetiche collegate a una meta mistica, cioè in sostanza del loro significato integrale.
Questa assimilazione istericamente parziale fa sì che il fruitore rimanga passivo, fermo nella propria posizione di consumatore. Un confronto più profondo, davvero interculturale, coinvolgerebbe appunto due culture: quella del soggetto che cerca e quella dell'oggetto che si ha davanti, illuminando con chiarezza le intuizioni cardinali, lo stato di salute, le fecondità ma anche le aree invecchiate e i limiti delle culture in causa.
Il problema è che non è affatto chiaro da che cultura vengano (e dunque cosa portino al dialogo) molti dei ricercatori interculturali che può capitare di leggere o ascoltare. Non si capisce quali valori dialoghino con quali. Spesso sembra anzi che proprio una certa voracità consumistica e una curiosità analitica venata di ambizioni mondane siano le caratteristiche più riconoscibili di molti tra i produttori e fruitori di cultura. Ma se è così mi chiedo: è possibile mettere sullo stesso piano questa voracità intellettuale con i valori di cui parla l'oggetto culturale che si ha tra le mani, in questo caso un manuale di spiritualità o di filosofia pratica dell'Oriente antico? Non siamo forse in presenza di un valore e di un disvalore? Di una virtù e di un vizio? Che dialogo è possibile?
Mi si può obiettare che proprio questo è il senso profondo dell'incontro: un valore di cui si parla in un testo antico viene chiamato a sanare un vizio, o almeno una mancanza, nel lettore moderno. Ma se non c'è coscienza del vizio come può esserci un cambiamento? E se il vizio invece che venir segnalato viene eletto a metodo, a stile sociale, che speranza c'è che venga combattuto?
Uno dei rari esempi pubblici che hanno recentemente contrastato questa disparità imbarazzante tra livello delle fonti e dei loro fruitori contemporanei è stata la netta presa di posizione di un noto economista indiano riguardo l'insegnamento di Krishna nella Bhagavad Gita, una posizione che suona pressapoco così: Arjuna non avrebbe dovuto combattere, i suoi scrupoli riguardo alla presenza di parenti e amici nelle fila dell'esercito avversario erano giusti, Dio ha assunto una posizione, nel convincerlo del contrario, tutto sommato difficile da giustificare e il messaggio di quella parte del dialogo è pericoloso. Qualsiasi opinione si possa avere a riguardo, appare chiara la legittimità dell'obiezione: un valore (l'ahimsa, non nuocere, non violare) si erge contro un altro (lo svadharma, accettazione incondizionata delle regole collettive), dando il via a un vero dialogo. Questo esempio è importante perché ci dice che è possibile, oggi, avere dei valori e che è possibile averceli anche da laici.
Un'altra obiezione possibile alla mia critica del livello di maturità etica dei fruitori occidentali di fonti sapienziali orientali è che le fonti sono antiche, le religioni a cui si riferiscono sono spesso del tutto scomparse dai paesi che le hanno generate e questa evoluzione secolarizzante legittimerebbe anche la nostra attuale assenza di valori forti. Ma davvero solo dalle religioni scaturiscono i valori? Perché non da una cultura civica, da una scuola pubblica orientata alla ricerca scientifica e umanistica, da esempi famigliari, da ambienti di lavoro che si confrontano con l'etica della vita comune, cioè in generale da fonti più complesse ma altrettanto certe? Sono davvero le istituzioni laiche così malmesse da essere incapaci di formulare una qualsiasi idea di valore?
In ogni caso l'esempio appena riportato dimostra la solidità di un valore spurio ma fortissimo come quello dell'ahimsa, che viene dalla filosofia indiana (è importante anche in altre sezioni della stessa Gita) ma che è stato reso trasparente e efficace dal Mahatma Gandhi, un valore che si nutre di un'intuizione spirituale ma che trova nell'idea di democrazia egualitaria una sua applicazione pratica ecc.
Senza questa maturità e responsabilità l'incontro con fonti sapienziali nate in seno ad altre civiltà rischia di essere un esercizio archeologico compiuto da consumatori sradicati e confusi, chini su reperti antichi ormai scollegati da qualsiasi cultura viva e dunque disponibili, nella loro nudità, a sanare le ferite, psicologiche più che spirituali, del cittadino globale o peggio: a intrattenerlo nei momenti d'ozio regalati dalla dislocazione della produzione nei paesi dove nacquero proprio le idee e le pratiche di cui stiamo parlando.
Se invece l'incontro con l'Altro culturale porta davvero a un'interrogazione di tutta la nostra identità, allora può verificarla e far riemergere brandelli addormentati ma ancora vivi delle nostre radici, sostanziando il dialogo di un peso e di un'urgenza biografica altrimenti assenti.
La coscienza della necessità di sapere chi siamo per metterci in relazione con qualcun'altro è un presupposto all'apertura reale. A provocare chiusure identitarie sono piuttosto l'incertezza isterica, lo sradicamento, quel sentimento d'inferiorità che ci fa abbracciare sottoculture spettacolari ma ferme, mandate all'attacco mediatico proprio per mascherare la loro immobilità e perpetuare i privilegi del potere che le protegge.
Così, può forse sembrare paradossale, avere un'identità culturale mobile ma innegabile, aperta ma certa, avere radici e ideali è un presupposto migliore al dialogo interculturale che arrivarvi sfiniti in cerca di una verità rapida. Questo vale soprattutto riguardo alla nostra questione centrale: la posizione in cui dobbiamo trovarci per far entrare il Soffio.
Se interrogate con attenzione e intelligenza, molte discipline spirituali dell'Oriente antico hanno qualcosa di prezioso da dare al ricercatore occidentale. Rispetto al tema di questo intervento, rimane per noi occidentali sconvolgente il fatto che sia la civiltà indiana che quella cinese si siano concentrate sulla precoce, autonoma codificazione di uno straordinario patrimonio di posizioni fisiche, che da subito hanno collegato non solo alla salute del corpo ma a una più generale salus, a una salvezza integrale.
Non c'è nessun automatismo tra l'esecuzione di una serie di asanas o una seduta di zazen e l'illuminazione. Neppure una loro ripetizione costante assicura la certezza di un qualche samadhi. E proprio questo testimonia la loro serietà come discipline spirituali.
Ma
l'intuizione stessa della possibilità di unire corpo fisico, psiche
e vita spirituale attraverso pratiche precise, tentate e poi affinate
nei secoli, è già qualcosa di straordinario.
Che poi oggi queste discipline siano usate come metodi di fitness, di rilassamento o di mero potenziamento psicofisico, che la ricerca riguardo a un collegamento tra posizione fisica e posizione interiore sia tralasciata, rientra nella nebbia in cui rischiamo di trovarci se il dialogo tra culture rimane in superficie.
In quest'ultima sezione del mio intervento vorrei almeno, attraverso un breve accenno ai miei studi e alle mie pratiche spirituali degli ultimi anni e al loro collegamento con la mia ricerca espressiva, cercare di parlare di come una specifica disciplina, la danza butoh, sia stata, sia e possa essere un luogo prezioso nel quale i concetti di posizione interiore e posizione fisica cominciano a dialogare e nel quale diverse elaborazioni espressive possono trovare una loro nascita, verifica e rivitalizzazione, in un orizzonte contemporaneo e interculturale.
Tra
queste ricerche espressive ci sono quelle di chi scrive e di chi mi
ha invitato a farlo.
Passare attraverso il butoh
Omaggio a una disciplina interculturale
Qualche anno fa, venendomi a trovare anch'io in quella selva oscura regalo dell'età di mezzo, decisi di interrompere la successione di abitudini che mi ci aveva condotto. Creai attorno a me un vuoto e provai ad osservare per qualche tempo certi legami, diventati solidi, tra le mie letture e i miei comportamenti, tra il mio modo di intendere la professione, di esserne schiavo per dirla sinceramente, e i miei rapporti con gli altri, tra le influenze della mia educazione famigliare e i miei proclamati valori di adulto.
La situazione mi apparve così confusa, così penosamente lontana dalle mie aspettative giovanili che presi a riguardo decisioni drastiche, a seguito delle quali il mio complesso psicofisico ricominciò ad ospitare un più regolare transito di ossigeno. L'uso protratto di una certa forza, nervosa e muscolare, di un'intelligenza tutta maschile e progettuale aveva finito per esaurire quasi del tutto una parte di me, mentre un'altra cominciava ad atrofizzarsi precocemente.
L'esaurimento, ad essere precisi, non era conseguenza diretta dell'uso della forza ma della frustrazione conseguente ai suoi fallimenti: una specie di intristimento protratto di fronte alla rivelazione inaspettata che certe mie qualità naturali che avevo sempre considerate socialmente spendibili con buone possibilità di riuscita, venivano sistematicamente neutralizzate.
Il dolore che provavo era di natura solo psicologica. Non sentivo nessun attaccamento per quei valori che venivano ridicolizzati a contatto con la realtà. Semplicemente, abituato com'ero ad appoggiarmici di continuo, non riuscivo a staccarmene senza barcollare. La percezione netta della loro inconsistenza mi aiutò in questo passaggio.
Fu in quel momento che riaffiorò la mia adolescenza solitaria e spirituale, contestataria e intrattabile e dovetti ammettere che gli anni successivi di apprendistato professionale, sentimentale e sociale assai poco avevano apportato alla soluzione delle questioni che mi ponevo a sedici anni e che vent'anni dopo rimanevano centrali.
Quella della posizione riguardo alla vita e al suo mistero, al suo nutrimento segreto era e rimaneva la questione principale. Devo forse a un brutto infortunio e alla sua lunga convalescenza l'inizio di una nuova e più autentica pagina della mia vita e l'uscita dalla selva oscura.
Ho sempre chiesto al teatro che facevo di essere un'espressione onesta, per quanto mediata e meditata, delle mie riflessioni, dei problemi che ritenevo fondanti per me e per gli altri. Ma proprio questa fonte tematica negli anni si era andata intorbidendosi, parallelamente alla mia confusione personale. Così non potevo ripartire dal teatro ma da un'interrogazione riguardo a quali fonti, dopo tutto, ritenevo essenziali per la mia vita.
Dovetti ammettere che le poche parole per me essenziali, da ascoltare e pronunciare, riguardavano direttamente ed esplicitamente il significato dell'esistenza e appartenevano dunque a un'ispirazione spirituale, filosofica, forse anche proprio religiosa. Che questo genere di ispirazione io la potessi trovare anche in molte grandi opere di poesia mi consolava sul fatto che avrei potuto rimanere quello che ero: un artista. Ma senza questa ispirazione nessuna opera poetica mi avrebbe più toccato.
A questo punto cominciai, prima timidamente poi con sempre maggior coraggio, lo studio, la meditazione e in generale un'assidua interrogazione dei testi canonici e di opere di ascetica e mistica, per molto tempo solo di area cristiana e induista o a sfondo interreligioso tra le due, allargando poi, con l'inizio dello studio della lingua cinese, al buddhismo chan e al taoismo.
Quando, dopo qualche anno, quest'assiduità diventò qualcosa come l'indicazione di una vocazione mi chiesi se la mia vecchia professione avrebbe potuto ospitarne alcune espressioni.
Non ne fui certo finché non incontrai il butoh. I principi di questa danza mi aiutarono a trovare, pur in un ambito diverso come il teatro di parola, il modo di far dialogare cammino spirituale e una sua parziale trasposizione scenica. E' stato il butoh a indicarmi un corrispettivo fisico, espressivo di una posizione interiore, la sua non solo possibile ma addirittura necessaria, traduzione scenica.
Contemporaneamente a questi momenti di studio pratico continuavo a interrogare parole in qualche modo ad esso corrispettive e ad esempio posso dire di avere imparato più precisamente a spostare l'energia nella parte bassa del corpo da un antico trattato di medicina di un monaco zen giapponese che dai miei studi di butoh.
Tuttavia il butoh ha davvero in sé qualcosa di straordinario. E questo qualcosa riguarda la sua apertura, la sua universalità. Pur essendo una danza specifica (di una specificità poco tecnica e molto espressiva, quindi variabile) è, come lo zen, inizialmente trasmissibile solo da maestro ad allievo, profondamente legata ad una o a una serie di relazioni umane, chiamate ad avere per l'allievo un'esemplarità che possa fare da motore a una nuova, rigorosa ricerca individuale. Pur essendo radicato nella cultura giapponese, il butoh ha forti consonanze ideali col taoismo (e questo può essere, pur alla larga, storicamente fondato) ma anche paradossali tangenze con la posizione interiore a cui allude il cristianesimo evangelico.
Il lavoro di Francesca Proia, che mi ha invitato a scrivere quest'articolo, interroga e sviluppa i legami del butoh con lo yoga, situando poi il corpo in scenari metafisici di ispirazione europea, in un solido tentativo interculturale. E riguardo ad altri artisti passati attraverso il butoh si potrebbero fare altre notazioni.
In ogni caso, il fatto che per molti artisti diversi il butoh sia stato un catalizzatore così prezioso all'interno dei rispettivi percorsi espressivi può voler dire che c'è qualcosa, in questa pratica, di profondamente maieutico, forse un segreto su come prepararci al dialogo interculturale e addirittura proprio sulla nostra questione centrale: quale posizione tenere per far passare il Soffio.
Come tale, questo segreto rimane ineffabile. Si può però, coi mezzi fragili di uno sguardo poetico, girarci infine brevemente attorno, per provare a intravvederlo, seppur furtivamente.
E' una morbidezza, a tratti una mollezza. Un'immobilità che minaccia di essere eterna. Una sparizione di sé, una kenosis, uno svuotamento (Cristo svuotò sé stesso recita lo sconvolgente passo paolino). Una scomparsa come quella dei taoisti, maestri di realizzazioni discendenti fin nelle cose più infime, scomparse mimetiche, cosificazioni (Da pietra intarsiata diventar legno grezzo dice Lie-zi). Poi però è una furia, improvvisa, lasciata libera, immotivata e incomprensibile, del tutto lontana dalla rabbia umana, piuttosto una sua rappresentazione perfetta: una porta che sbatte ma a cardini fermi (l'immagine è eckhartiana), dunque un ennesimo esercizio di distacco. Ha la fluidità e la malleabilità di un metallo fuso dice dell'anima una mistica francese: così il corpo nel butoh. Tutto sembra convergere verso una proposta di prontezza estrema, di scomparsa dell'inessenziale, di completa utilizzabilità del mezzo per merito della sua conquistata trasparenza.
Nel futuro del dialogo interreligioso ci sarà forse lo spazio per qualcosa del genere?
Una spiritualità
di passaggio dentro la quale rinfrescare le proprie radici
rinnovandole, come nel butoh sanno ritrovarsi le
radici espressive del corpo, che poi fioriscono autonomamente secondo
le regole della propria natura, della propria origine storica e
culturale, insomma del proprio destino?
Pionieri del dialogo interreligioso e interculturale come il vecchio Panikkar, appena scomparso, ne sarebbero contenti.
Bologna, ottobre 2010
Bibliografia essenziale
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- Le
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-
Liezi, a cura di A. Cadonna, Einaudi, 2009
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A., Laicismo indiano, Feltrinelli, 1998.
-
Zhuangzi, Adelphi, 1982.
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