(Pubblicato su 'La Sala della Comunità', 2013)
di Alessandro Berti
di Alessandro Berti
Cosa c'entra il teatro, arte spuria se ce n'è una, con la mistica, purezza d'unione con Dio?
Proviamo
dunque a percorrere il transito tra questi due territori, a misurarne
una distanza. Premessa: chi scrive è un teatrante, con qualche suo
interesse spirituale, quindi questo intervento non ha alcuna pretesa
oggettivante: è di parte.
L'immagine
che abbiamo del teatro è quella di un ambiente di disordine, di
privilegi oziosi, di cene post-spettacolo. Non ci siamo in fondo mai
del tutto liberati, qui da noi, dal topos del gruppo di
comici, quelle famiglie della Commedia d'Arte, che vagavano per
l'Europa su carri pieni di costumi, scenografie, bambini. In realtà
sono ormai secoli, due almeno, che il teatro in Europa è borghese, e
i teatranti funzionari, personaggi ammirati, con conto in banca e
appartamento in centro. Anche adesso che si stringe la cinghia, non è
che cambi di molto il modello: diminuisce il numero di occupati.
Nel
novecento qualcuno ha preso un'altra via, ha proposto un'altra idea
di teatro, e teatrante. Il Living Theatre col suo nomadismo, hippy e
gioiosamente libertario, l'Odin e il suo teatro antropologico, ma
soprattutto, riguardo al tema qui trattato: il lavoro di Grotowski in
Europa e, in Giappone, l'incontro tra Hijikata e Kazuo Ohno, atto di
nascita della danza butoh.
Grotowski
ha proposto disciplina, serietà di processo, rigore, ricerca delle
radici, ore di sala prove, attenzione, al corpo stanco del performer
occidentale. Lo stesso ha fatto, in altro modo, il butoh, danza
non-danza che nasceva punk, come protesta all'invasione yankee, per
poi farsi, negli anni, nel silenzio, splendidamente rituale, ancorché
laica. Il lavoro di Grotowski e il butoh hanno fornito ai
teatranti degli strumenti potenti, un training semplice e
ossessivo, servendosi del quale (con l'aiuto di una guida
intelligente) il performer può scoprire qualcosa, di sé e di quel
che può fare. Stiamo parlando di strumenti non stilistici, non
esteriori, ma delicati, propedeutici a un'espressività che nasce
informe, al risveglio di corde profonde. Non a caso ci si richiama
qui a una tradizione, lo yoga per il butoh, i canti vibratòrii
per Grotowski, la cui distanza viene data per scontata, ma la cui
efficacia è percepibile, ancora e sempre, dentro i corpi, in quelle
risonanze che, nei corpi, il lavoro produce.
Sin qui
ho tentato, molto brevemente, un transito dal teatro alla mistica,
indicando nel Butoh e nel lavoro di Grotowski, i tentativi secondo me
più forti, di dialogo con l'elemento spirituale, per dire così. Ora
vorrei fare il transito inverso: partire dalla mistica.
Scrive
Meister Eckhart: se uno pensa di ricevere Dio in un dolce
rapimento, in una grazia particolare, più che davanti al camino o
nella stalla, costui afferra Dio, gli avvolge un mantello sulla
testa, e poi lo caccia giù, sotto una panca, perché chi cerca Dio
secondo un modo, prende il modo e perde Dio, che è nascosto nel
modo. L'ammonizione del maestro di Erfurt chiarisce cosa non
è l'unione mistica: una vacanza, un punto d'arrivo. Piuttosto, con
l'immagine della stalla e del camino, si allude qui alla vita
quotidiana, dove servono strumenti di attenzione, e dove niente viene
dato per sempre: va rinnovato con la nostra presenza. E invece ancora
la parola mistica, come s'è visto per la parola teatro,
ci fa fare collegamenti immediati, e fuorvianti, col suo uso comune,
nel quale è prossima a qualcosa di oscuro, addirittura patologico
(delirio mistico si dice normalmente). All'immagine del carro
di straccioni, dei commedianti epicurei in trasferta, corrisponde qui
il quadro dell'orante, con gli occhi al cielo, la bocca semiaperta,
murato nella sua cella in penombra.
Ma è un
fatto che tutti i grandi mistici, quelli che ancora oggi noi
leggiamo, sono lontani sia dalla follia che da un certo paternalismo
devoto. Chi ha sfidato la prima e quasi ha perso (penso a Surin),
alla fine, spossato, disarmato, ha attinto luce da un riposo puro,
dal quale ha tratto una voce trasparente. Chi ha convissuto col
secondo (tutti i predicatori), ha spinto la propria fedeltà così
lontano, da farne una libertà postuma a tutto.
C'è per
me una linea forte, dentro la mistica cristiana, che va dalla furia
pubblica di Eckhart, a quella intima del dottor De la Cruz, si gusta
nel genio liquido di De Caussade, arriva fino a Charles de Foucauld,
intransigente, dolce, fiorisce nell'intelligenza di De Certeau,
donata all'oggi, o nello sguardo e nelle parole di Arturo Paoli,
amaro, disarmato...
Cosa
accomuna questi sentieri tra loro, quello di un Jerzy Grotowski e di
un Tatsumi Hijikata, con quello di un Michel De Certeau o di Arturo
Paoli?
A me
sembra, per concludere, di poter dire almeno questo: nell'opera dei
grandi teatranti vedo un transito, continuamente ripercorso, dalla
vita al teatro, sia nel senso di una purificazione (abbandonare
la vita da teatrante per lavorare alla vita del teatro,
per dirla con Julian Beck), sia in un senso poi di proposta e di
precisazione (la codificazione e l'importanza del training, un
rapporto più profondo e meno scontato con la tradizione, la
preminenza del processo sul risultato). D'altra parte, nella vita e
nell'opera dei grandi maestri di spiritualità, dei grandi mistici,
io leggo un transito continuo, continuamente risperimentato,
dall'orazione all'entrata nella storia, dalla contemplazione alla
vita pratica, come il passaggio eckhartiano ci ricorda.
L'incarnazione è il fatto primo e ultimo, il campo di battaglia non
è più la mente, non di continuo, e non alla fine, il campo di
battaglia con noi stessi è fuori, là fuori, nei luoghi della
relazione, con gli altri, con le cose, là dove si è chiamati infine
a vivere, testimoniare, amare. Il teatro conosce la carne, da sempre,
e vuole adesso non allontanarsene, ma graduare maggiormente il suo
strumento. Per farlo fugge sia la strada che i teatri, diventa
aristocratico, rituale. La mistica è contemplazione che s'incarna,
che ambisce a ritrovare un corpo nuovo, purificato, pronto al dono di
sé, così facendo si scioglie nella storia, si offre alla relazione:
dialoga.
E
tuttavia i due pellegrini sul sentiero, il mistico e il teatrante,
non si incrociano. O se si incrociano, magari si salutano, si
riposano in un punto centrale, si scambiano consigli, confidenze, ma
non invertono mai la loro rotta. Forse concorrono a qualcosa di
comune, ma dentro due vocazioni irriducibili. L'estetico può forse
farsi etico, ma politico mai, mai fino in fondo. Il mistico invece è
politico (lo aveva capito bene De Certeau), la sua eleganza
estetica un di più, non sostanziale. Così il mistico si sporca
nella strada, s'incarna nel suo teatro radicale, si dissìpa, poi
torna a casa, dentro un silenzio in cui cade stremato. Il teatrante
si purifica in prova, lungamente, la sua è un'ascesi concentrata,
attenta, poi torna a casa, e cerca corpi vivi, bar, parole. Oggi i
tragitti dei due sono mischiati, pare, c'è un'incertezza a compiere
i cammini: il mistico è tentato dalla bellezza, il teatrante forse
dalla giustizia, entrambi quasi cedono a fuggire.
Ma
l'efficacia, e la salute mentale, del teatrante e del mistico,
poggiano proprio su questa condizione: che il loro viaggio sia di
andata e ritorno.
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