Esperienza, ascolto e impeto di arresa nella ricerca teatrale di Alessandro Berti
di Silvia Guidi
Vorrei iniziare dal secondo elemento del titolo del convegno, il secondo sostantivo, quello che rischia di passare più inosservato: esperienza. Posto a cerniera tra due categorie fondamentali come "teatro" e "sacro", potrebbe sembrare solo un elemento di passaggio, poco più di una congiunzione. Invece, parafrasando Tertulliano, non solo Caro cardo salutis, ma anche Experiri cardo salutis. Expertus potest credere quid sit Jesum diligere; solo chi ne ha fatto esperienza sa cos'è l'amore di Cristo, si legge in un antico inno della tradizione cristiana attribuito a Bernardo di Chiaravalle, Jesu dulcis memoria, ma questo vale anche per il teatro quando "funziona", quando raggiunge cioè il suo scopo di svelamento e provocazione, assestando con grazia un colpo di rasoio alla nostra passività di spettatori. Se un libro — come scrive Franz Kafka — dev’essere "un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi" a maggior ragione una rappresentazione teatrale per dirsi riuscita deve quantomeno scalfire la scorza di scontatezza che riveste il nostro quotidiano.
di Silvia Guidi
In IL TEATRO E IL SACRO, San Paolo, 2013
Vorrei iniziare dal secondo elemento del titolo del convegno, il secondo sostantivo, quello che rischia di passare più inosservato: esperienza. Posto a cerniera tra due categorie fondamentali come "teatro" e "sacro", potrebbe sembrare solo un elemento di passaggio, poco più di una congiunzione. Invece, parafrasando Tertulliano, non solo Caro cardo salutis, ma anche Experiri cardo salutis. Expertus potest credere quid sit Jesum diligere; solo chi ne ha fatto esperienza sa cos'è l'amore di Cristo, si legge in un antico inno della tradizione cristiana attribuito a Bernardo di Chiaravalle, Jesu dulcis memoria, ma questo vale anche per il teatro quando "funziona", quando raggiunge cioè il suo scopo di svelamento e provocazione, assestando con grazia un colpo di rasoio alla nostra passività di spettatori. Se un libro — come scrive Franz Kafka — dev’essere "un’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi" a maggior ragione una rappresentazione teatrale per dirsi riuscita deve quantomeno scalfire la scorza di scontatezza che riveste il nostro quotidiano.
Un
utile esercizio per educatori, professori e formatori (sulla scia del
consiglio medice cura te ipsum, medico cura te stesso) sarebbe
contare quante cose ogni giorno - quasi senza rendercene conto, per
forza d'inerzia - si ripetono e si insegnano allineando
esclusivamente copie di mille riassunti di seconda o terza mano senza
averne fatto esperienza. Questo vale anche per la preghiera: si
discute a lungo su come, con chi o quando pregare ma non si prega, si
parla "di" Dio ma non si parla "con" Dio. Tra le
due attività c'è una differenza sostanziale, la stessa che passa
tra leggere la ricetta di una torta e mangiarla. Continuando a
sfogliare, confrontare, analizzare, valutare ricette di torte si
alimenta forse una effimera curiositas intellettuale, ma le
papille gustative interiori non vengono raggiunte da nessun sapore e
la fame dell'anima non viene saziata. Un rischio simile è presente
anche nella scorciatoia delle "istruzioni per l'uso" quando
si mettono a tema le strategie per la nuova evangelizzazione. Se le
nostre parole non raggiungono le persone a cui vorremmo far arrivare
l'annuncio cerchiamo di mettere a punto la tecnica pastorale
perfetta, miscelando sapientemente elementi diversi e confezionandoli
in un messaggio accattivante, o magari decidiamo di investire in
empatia, aumentando il tasso di poesia contenuto in ciò che
scriviamo o diciamo. Ma ogni piano di marketing di questo tipo, per
quanto mosso da ottime intenzioni e sincero spirito missionario,
presto svelerà la sua fragilità strutturale.
Se
decidiamo a tavolino di essere poetici, empatici, minimalisti,
massimalisti o quant'altro per comunicare meglio anche queste scelte
verranno presto archiviate tra i buoni propositi che durano lo spazio
di un mattino, nello scaffale impolverato delle parole d'ordine che
si alternano l'una all'altra senza lasciare traccia come gli slogan e
i colori di moda. Se non nasce dall'esperienza di quel tenace,
irriducibile "margine vertiginoso di ulteriore leggibilità che
conserva sempre il mondo", per citare la bella definizione della
misteriosa profondità del reale di Alessandro Berti, la
comunicazione è destinata ad essere inefficace.
«Oggi
la cultura è così diffusa da essere quasi passata nell’atmosfera
in cui un giovane respira. In lui vivono e si agitano idee
filosofiche e poetiche, le ha assorbite con l’aria del suo
ambiente, ma crede che siano di sua proprietà e perciò ne parla
come se fossero sue. Dopo aver però restituito al suo tempo ciò che
ne aveva ricevuto, si ritrova povero. È come una fonte dalla quale
per un po’ sgorga l’acqua che vi è stata versata e subito smette
di colare non appena la riserva si esaurisce». Sono parole che
descrivono, più o meno, la situazione attuale, ma risalgono a
qualche secolo fa: Goethe le pronunciò il 15 aprile 1829 ("era
un mercoledì" precisa Raffaele Vacca nell'articolo "Sulle
conversazioni di Goethe" in "Studium", n. 2 del 2009,
pagine 235-238). «In generale - conclude il poeta dall'alto della
saggezza dei suoi ottant'anni - non si impara nulla per semplice
sentito dire e chi non si impegna di persona nella pratica di certe
cose, le conosce solo superficialmente ed a metà».
Rem
tene verba sequentur raccomandavano i retori latini ai loro
allievi, abbi chiaro il concetto, conosci quello che vuoi descrivere
e le parole verranno da sole. Sembra facile ma lo è solo in
apparenza: essere disponibili a farsi raggiungere dalla conoscenza di
una cosa, mantenere in se stessi un atteggiamento di apertura
permanente verso quello che succede intorno a noi non è scontato, è
una conquista ardua e scomoda, soprattutto in un'epoca - la nostra -
in cui "la fretta, frusta del potere" (Patricia Pagoto) ci
stordisce di imperativi e stimoli contraddittori fino ad
anestetizzare quasi del tutto le nostre percezioni, relegandoci nel
limbo della reattività immediata e impedendoci di ascoltare le cose,
di lasciar affiorare il loro fascino inatteso e la loro segreta
domanda. Per recuperare la freschezza originale nel conoscere serve
un previo impeto di arresa, una disponibilità radicale a lasciarsi
toccare, ferire se necessario, dalle circostanze e dagli incontri.
Per questo, per chi come noi (nativi digitali o meno) è ostaggio di
due patologie non più percepite come tali, l'ossessione del
controllo e il delirio di onnipotenza, l'elogio dell'abbandono
interpretato da Alessandro Berti ha il valore e il potere risanatore
di un antidoto, di un controveleno fatto su misura per noi, anche se
proveniente da un passato lontano, la Francia del XVIII secolo .
«Com’è possibile che
proprio l’abbandono che, almeno a parole, sembra qualcosa di
ottuso, fin rassegnato — si chiede Alessandro Berti parlando de
L’abbandono alla Divina Provvidenza — contenga in sé
invece il massimo di conoscenza delle cose? Perché di questo si
tratta: il testo ci mostra, tenace come una goccia sulla roccia, che
proprio questa passività apre le porte al più profondo imparare e a
una attività finalmente purificata. Divina provvidenza qui è la
percezione immediata e a ogni istante di quanto sia provvida la vita
se la si guarda negli occhi, di come Dio parli continuamente
attraverso la creazione e di che margine vertiginoso di ulteriore
leggibilità abbia ancora il mondo, a saperlo guardare». «Il
momento presente è sempre pieno di tesori infiniti; contiene più di
quanto voi possiate accogliere» si legge nel testo attribuito al
gesuita Jean-Pierre de Caussade, ma probabilmente scritto da una
donna, secondo lo storico francese Jacques Gagey (citato da Cristiana
Dobner nel primo numero dell'inserto "Donne Chiesa Mondo"
de "L'Osservatore Romano", uscito nel maggio scorso). «Le
sue parole — continua Berti — ci esortano a considerare le
condizioni che ci sono date come le uniche reali. Riguardo alla
mistica mi sembra ci sia oggi un equivoco, pensare che la pace sia un
punto di arrivo. È un premio da usare come carburante per l’azione
dello spirito, non un divano in cui sprofondare, pena la perdita
irrevocabile del dono».
Non
basta dire di no, bisogna "fare" di no, diceva la
scrittrice americana Flannery O'Connor, aggiungendo che "visto
che sono cattolica, non posso essere niente di meno che un'artista".
Alla banalità, alla ripetizione inerte, alla scontatezza, alla
pigrizia dei cliché risaputi non si dice mai abbastanza di no, e mai
una volta per tutte. Ogni giorno si ricomincia da capo (o quasi);
pena, parafrasando di nuovo Berti, la perdita irrevocabile del dono.
Una domanda deve continuare a essere desta, la "pretesa"
che gli attori, gli autori, i registi, gli scenografi, i tecnici
delle luci e del suono sappiano fare ciò che Peter Brook chiedeva ai
suoi collaboratori: trattare le storie e le esperienze degli altri
come farebbe un cieco con una farfalla. Scoprendone con pazienza,
delicatamente, la vita.
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